5 Novembre 2024

Sono grata a “Memoria e Verità per le vittime del terrorismo” per avermi dato la possibilità di ricordare mio Padre, Magistrato ucciso dalle brigate rosse nel marzo 1980, e per avermi chiesto di provare a descrivere la mia vita dopo il suo assassinio.

Papà era stato appena nominato Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena (l’attuale DAP) e probabilmente proprio questo ha decretato l’esecuzione di una sentenza di morte peraltro già da tempo pronunciata.

In quei giorni ho purtroppo compreso come il dolore possa essere realmente e anche fisicamente dilaniante, come se qualcuno ininterrottamente lacerasse nel più profondo non solo la tua anima ma anche la tua carne.

Il mio dolore non è più profondo di quello di chiunque altro che perda una persona amata, a prescindere da come ciò accada; sono tuttora convinta che se papà fosse venuto a mancare naturalmente, in età avanzata, la mia sofferenza non sarebbe stata diversa. Ciò che, a distanza di oltre quaranta anni, ancora non mi consente di accettare la sua morte è il “come”, il fatto che qualcuno abbia scientamente deciso e pianificato a tavolino di porre fine alla sua vita. E di cambiare per sempre la nostra.

Da quel giorno mia mamma, all’epoca neanche sessantenne, si è limitata ad “esistere”, a trascinare la sua vita giorno dopo giorno in attesa del momento in cui finalmente si sarebbe ricongiunta a papà.

La mia vita invece è andata avanti, anche se non ho potuto condividere con lui la gioia della nascita dei miei figli, gli entusiasmi e le preoccupazioni nelle diverse fasi della loro crescita, se non ho più avuto le sue braccia nelle quale rifugiarmi nei momenti difficili. Ma lo strappo non si é mai rimarginato. Perché la sua perdita non è stata una ferita: una ferita prima o poi guarisce e a volte puoi anche dimenticare di portarne la cicatrice, o provare a nasconderla, anche a te stessa oltre che agli altri. La sua perdità è stata l’amputazione di una parte di me. Ho imparato a vivere con questa menomazione, alla fine a conviverci, ad accettarla come una parte di me, ma la “sento” prepotentemente sempre addosso, in ogni attimo della mia vita.

In un dolore che non riesce ancora a trovare una ragione.