Il “rito” delle celebrazioni, in occasione degli anniversari degli atti terroristici, si ripete immancabile ogni volta, quasi con lo stesso schema: inaugurazioni di lapidi commemorative, quando già non ci sono, discorsi di autorità, ricostruzioni storiche e giornalistiche, “nuove rivelazioni”, “riapertura” di processi giudiziari che in alcuni casi non si sono neanche socchiusi.
Lo Stato, i politici, le istituzioni, diventano protagonisti per un giorno di qualcosa che in realtà appartiene alla memoria comune condivisa e, soprattutto, alle vittime tutte. La politica nel suo insieme è portata a considerare queste celebrazioni un momento importante della lotta al terrorismo, come se il terrorismo potesse essere combattuto così: si procede sempre secondo la narrativa della sicurezza, dei confini, dell’identità, il tutto concentrato su cause, significato, e misure di prevenzione; passa in secondo piano a questa narrazione di sicurezza, il senso di comunità, di resilienza, di solidarietà sincera che non sono utili alla politica, ma sarebbero invece utilissimi a rendere le vittime parte integrante della loro comunità.
Una ricostruzione, un discorso commemorativo, perfino un convegno che indaghi sulle origini di un atto terroristico, sono iniziative formali utili alla storia, raramente alle vittime. Intendiamoci, non vogliamo affermare qui che l’attenzione degli storici e dei giornalisti su un atto violento accaduto cinque, dieci, trenta, quaranta anni prima non sia non solo importante, ma anche doverosa; poniamo invece in discussione quanto sia inappropriato confinare memoria e ricerca di verità nella temporalità dei rituali celebrativi.
E così, sia pure involontariamente, certe celebrazioni invece di unire dividono, soprattutto le vittime: alcune partecipano, ben contente di essere al centro dell’attenzione, altre rifuggono dalla banale formalità, che le depersonalizza a oggetto e non soggetto dell’evento, altre restano nell’ombra, completamente ignorate perché accessori inutili alla narrazione ufficiale.
Poi c’è la cosiddetta società civile, la comunità che non è come vorrebbe la politica un organismo unico e compatto capace di risposta univoca alla narrativa istituzionale; piuttosto è una composizione di idee, espressioni, sentimenti, percezioni, capaci di attivarsi e riunirsi in circostanze, appunto, come il ricordo di un attentato. Lutto, indignazione, paura, ma anche resistenza e unità, sono questi i sentimenti spontanei che provengono dal basso, in un senso di condivisione spontanea che difficilmente si lascia ingessare nell’ufficialità.
Dunque le celebrazioni non possono essere strumenti in mano alla politica, da usare per coprire assenze, omissioni, lentezze della giustizia. Le celebrazioni devono servire alle vittime, per sentirsi ricordate, comprese, sostenute. Solidarietà e senso di appartenenza, “togetherness” per usare una sintetica espressione inglese.
Come ha detto il Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres, “quando rispettiamo i diritti umani delle vittime e forniamo loro supporto e informazioni, riduciamo il danno duraturo arrecato dai terroristi a individui, comunità e società“.
Questa è la chiave delle celebrazioni, questa la chiave per dare una risposta vera al terrorismo senza oscurare chi lo ha subito e ne porta ogni giorno le conseguenze.