25 Aprile 2024

Il 18 luglio del 1994 l’attentato terroristico al Centro ebraico AMIA  di Buenos Aires uccideva 85 persone e ne feriva fisicamente oltre 300 (impossibile stabilire il numero esatto, vista la portata dell’esplosione).

La direttrice emerita del Centro di Documentazione e Informazione sull’ebraismo argentino Marc Turkow, Anita Weinstein, miracolosamente scampata a quel sanguinoso evento, racconta la sua esperienza. La pubblichiamo nella convinzione che molti, feriti e parenti delle vittime, si ritroveranno nelle sue parole.

Anita Weinstein nella galleria fotografica con i ritratti di tutte le persone coinvolte nell’attentato.

Sono sopravvissuta a un attentato che nessuno pensava potesse accadere, nel 1994, in un posto come l’Argentina che ha visto la presenza di ebrei fin dal 1880 sono state create organizzazioni, grandi comunità e molte famiglie ebree sono venute qui. Questo odio viene da persone che credono che sia una cosa buona uccidere qualcuno, perché questo qualcuno è differente o non piace, in un mondo che dopo la Shoah pensava che non sarebbe più successo.

Quando racconto cosa mi è successo, ho qualcosa di molto chiaro nella mia memoria: mia madre e mio padre erano sopravvissuti alla Shoah in Polonia, mia madre è stata nascosta insieme a suo fratello da un vicino polacco cattolico, che li ha messi in salvo e protetti per più di tre anni durante le persecuzioni. Per questo ho la convinzione che esistano anche persone buone, ma dopo ripenso alla bomba alla quale sono sopravvissuta. Il giorno dopo l’esplosione, mia madre mi è venuta a trovare per accertarsi di persona che fossi viva e non fossi ferita e mi ha detto che non avrebbe mai creduto che sua figlia fosse vittima di un attacco contro gli ebrei. È molto triste pensare che siamo sopravvissuti a questo odio che ancora esiste e nello stesso tempo che abbiamo il coraggio, come mia madre e mio padre, di andare avanti nella nostra vita.

Quel giorno io ero in questo edificio (n.d.r. l’edificio dell’AMIA, in parte distrutto dall’esplosione).

Avevo due posti di lavoro: questa è la sede principale di AMIA, ma qui vicino c’era un altro edificio dedicato alle attività educative, il training per gli insegnanti e la biblioteca. Io ero la direttrice della biblioteca, dove si trovava anche il centro di documentazione, con tutti i documenti e le registrazioni.

Quel giorno, era un lunedì, ero con la mia assistente Myrta, eravamo un po’ in ritardo e le ho detto di andare insieme nell’edificio principale, qui, dove avevamo uffici al secondo piano. Pochi giorni prima ci avevano cambiato posto di lavoro, per cui avevamo un ufficio nella parte su strada del palazzo, visto che l’altro stava per essere dismesso.

Così siamo entrate, abbiamo salutato, siamo salite al secondo piano, lei è rimasta lì, io ho camminato verso la parte di fronte del palazzo per chiedere qualcosa a qualcuno. Appena sono arrivata lì, abbiamo sentito un’esplosione tremenda, non sapevamo cosa poteva essere, abbiamo cominciato a gridare “cosa è successo?”, pensavamo qualcosa all’esterno dell’edificio, ma non potevamo immaginare. Ho iniziato a preoccuparmi per Myrta che era rimasta indietro e così mi sono girata per andarla a cercare ma qualcuno mi ha afferrato, era tutto avvolto nel fumo, non riuscivamo a vederci tra noi né a respirare. Qualcuno mi ha preso e mi ha detto: “fermati, non c’è più il pavimento!” Dopo, quando ho visto le foto, ho capito quello che intendeva.

Noi eravamo lì e c’era una porta per uscire che era stata realizzata solo due settimane prima. C’erano state delle modifiche nel palazzo, ecco perché c’era un’uscita davanti sulla strada e grazie a Dio noi eravamo sull’unica parte dell’edificio rimasta in piedi e con una porta, così siamo usciti per riprendere aria. Ma allora abbiamo cominciato a capire cosa era successo, io ho urlato, chiedevamo aiuto ma già l’edificio era completamente crollato. Sono arrivati i soccorsi e ci hanno portato in una parte dell’edificio che era ancora in piedi. Ho camminato nei pochi metri che mi separavano dal luogo dell’esplosione e ho visto quello che era successo. Volevo avvicinarmi e aiutare ma non me l’hanno permesso. Abbiamo centinaia di foto. Dalle strade vicine arrivava gente, perché l’esplosione si era sentita a una distanza di cinquecento metri. La gente era spaventata, in strada, chiedeva cosa era successo. Hanno cominciato a scavare tra le macerie, a tirare fuori persone ancora vive. Ma le vittime sono state 85. I feriti sono stati 300 e più, impossibile sapere quanti date le proporzioni dell’esplosione. C’è un importante ospedale qui vicino, dove sono stati prontamente portati.

Dopo molti anni, qualcuno è venuto qui al centro AMIA, era un dottore che ha chiesto di vedere foto dell’esplosione, perché, ci ha raccontato, quel giorno dovevo fare degli interventi chirurgici ma c’era stato un problema in sala operatoria, mancava la luce, e non avevano potuto iniziare alle 8 come previsto. Così alle 9 la sala operatoria era vuota ed è stata una benedizione perché si sono potute prestare le prime cure ai feriti. Un piccolo miracolo nel miracolo di essere sopravvissuti.

Fin dal primo momento ho pensato che non potevo permettere a questi terroristi di portare a termine il loro piano di distruzione e che avrei continuato a vivere, che avrei continuato a lavorare, che avrei continuato con la mia vita con mio marito e i miei figli, e che sarei stata presente nella mia comunità e nella società argentina, che non sarei rimasta a casa ma avrei cercato di aiutare.

Centinaia di parenti erano qui nei dieci giorni in cui si sono recuperati tutti i corpi da sotto le macerie: la gente portava cibo, sono arrivati rabbini e anche sacerdoti cattolici, perché non sono stati uccisi solo ebrei. È stato molto commovente ricevere centinaia di offerte di aiuto, psicologi, dottori, baby sitter, insomma questo è stato un evento che ha colpito profondamente la società.

Mirta Strier AMIA
La targa in ricordo di Mirta Strier, segretaria di Anita Weinstein, assassinata dalla bomba al Centro AMIA

A distanza di tanti anni questo evento è ricordato, è citato, anche perché noi ebrei abbiamo iniziato ad avere un ruolo importante nel ricordo: ogni anniversario c’è una cerimonia qui nella strada ricostruita in cui sono presenti centinaia di persone, riempiono la strada fino a due isolati in entrambe le direzioni, è molto commovente. Sono state anche fatte ricerche sociologiche sulla percezione delle motivazioni di questo attentato e la maggior parte delle persone si sente ferita, e c’è la richiesta di verità e giustizia oltre che di ricordo. Ma le investigazioni durano da anni: si sa chi ha pensato tutto questo, chi lo ha preparato, chi lo ha fatto, c’erano forze iraniane qui, con l’aiuto della polizia locale, si sa tutto ma non si è ancora arrivati a fare giustizia. Fino ad oggi stiamo chiedendo giustizia, perché si sa chi ha messo la dinamite, chi ha organizzato, chi sono i responsabili, come hanno fatto… I responsabili diretti hanno trovato rifugio in paesi arabi. Si è attivata la polizia argentina e l’Interpol, ma non è successo niente. Questo è il mondo in cui viviamo.

Come vedo il futuro?

Come ho detto sono tornata al lavoro e mi sono sforzata di farlo ogni giorno, non sono rimasta a casa e ho capito che questo era il mio modo per salvarmi. Ci sono state tante persone che non hanno più voluto venire a lavorare all’AMIA, entrarci, sono rimaste scioccate. Non li critico, li comprendo, ma ho fatto una scelta diversa. E per me va bene così.

 

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Memoria e verità