18 Maggio 2024

Ecco alcune riflessioni di Giordana Terracina, che da anni fa ricerche d’archivio e studia la storia recente del nostro Paese, sull’attentato terroristico palestinese a Fiumicino nel 1985.

Partiamo con i fatti narrati dai vari articoli dei quotidiani, usciti in quei giorni, tra cui segnalo con attenzione particolare “Il Giornale” e “Paese Sera”:

Alle ore 9 circa un commando composto da quattro terroristi, armati di kalashnikov e bombe a mano tipo ananas, aprì il fuoco nel settore delle partenze internazionali verso i passeggeri in coda per il check in dei bagagli presso gli sportelli della compagnia aerea israeliana El Al e dell’americana TWA nell’aeroporto Leonardo Da Vinci di Fiumicino a Roma.

Risposero al fuoco gli agenti di pubblica sicurezza presenti sul posto e 5 agenti speciali israeliani, che come vedremo più avanti erano stati posizionati a difesa dell’obiettivo ritenuto sensibile a seguito di segnalazione della stessa ambasciata. Il risultato dell’attacco fu di 16 morti, di cui una parte nell’immediato all’aeroporto, mentre altri durante il trasporto verso gli ospedali della città di Roma e di 76 feriti. Tra gli attentatori 3 morirono, un quarto venne arrestato e condotto ferito all’ospedale di Regina Coeli. Su alcuni di essi trovarono un biglietto con scritto “martiri della Palestina”.

Con pochi minuti di differenza, all’aeroporto Schwechat di Vienna, un altro commando di terroristi, nel numero di 3, assaltarono la zona del check in delle linee aeree israeliane El Al e spararono nel salone delle partenze. In questo secondo attentato ci furono 4 morti, tra cui 1 terrorista e 44 feriti. Altri 2 terroristi riuscirono a fuggire, ma furono fermati e arrestati nella strada verso la frontiera con la Cecoslovacchia.

Riflessioni:

Gli avvenimenti, così come furono riportati dalla stampa, possono oggi a distanza di anni essere meglio analizzati e compresi nelle loro dinamiche. Partendo da questo presupposto, propongo un’elencazione dei punti più significativi su cui poter ragionare:

Il terrorista rimasto ferito nell’attentato a Fiumicino, Mohamed Sarhan Abdallah (Magdy nome di battaglia), durante i vari interrogatori rilasciò diverse ricostruzioni dei fatti. Inizialmente si dichiarò facente parte di un gruppo chiamato “cellula fedayn araba” ovvero “cellula della guerriglia araba”, partito da Beirut e giunto in treno dalla Svizzera con un suo compagno, Mohamed Alì rimasto poi ucciso, facendo tappa a Firenze per fornire una copertura turistica al loro viaggio.

Lo stesso Vvald Audeh portavoce politico del gruppo di Abu Nidal con un comunicato smentì la responsabilità del gruppo per gli attentati di Roma e Vienna, incolpando le cellule arabe dei fedayn.

Dopo pochi giorni, sempre secondo la sua ricostruzione, nel capoluogo toscano soggiornarono anche gli altri componenti della cellula e si trovarono poi tutti a Roma in un albergo vicino al Vaticano, un luogo allora non troppo sorvegliato dalle forze dell’ordine. Arrivarono con dei passaporti falsi del Kuwait e dell’Arabia Saudita. Dagli accertamenti fatti dagli investigatori italiani, però, risultarono delle imprecisioni nel racconto che venne in seguito rettificato dallo stesso terrorista. I passaporti risultarono così essere marocchini provenienti da Tripoli (ci fu un dibattuto approfondimento sulla loro origine) e sauditi e all’interno vi furono trovate delle scritte in arabo poi tradotte. Anche la rotta del viaggio risultò essere diversa, perché da Beirut si diressero verso Belgrado volando con le linee aeree jugoslave, da qui poi proseguirono verso Zagabria in treno per arrivare, infine, prima a Trieste e poi a Roma.

Qui si incontrarono con altri 2 palestinesi, poi ripartiti prima dell’attentato, che gli consegnarono le armi, introdotte in Italia dalle forze rivoluzionarie europee presumibilmente “l’Action Directe e le Brigate Rosse” e seppellite vicino a Roma (in 2 borse venne ritrovato del terriccio). Nella zona tra la stazione Termini e via Cavour, nella Pensione Cavour e nell’Hotel Ariston si pensò che vi fosse la base operativa del terrorismo palestinese.

L’appartenenza dell’uomo al gruppo di Abu Nidal, invece, fu scoperta grazie a una telefonata che lo stesso fece a una utenza a Damasco, situata in un’aerea urbana dove l’organizzazione possedeva un ufficio e non nella zona palestinese della città.

Sarhan dichiarò di aver telefonato ad Abu Nizar, uomo di Abu Nidal e di far parte di un gruppo di 35 terroristi addestrati in Libano e destinati a compiere attentati in Europa. Tuttavia, ciò che catturò maggiormente l’attenzione dei cronisti fu la ricostruzione che l’attentatore fece dell’organizzazione stessa. Questa era composta da 1 comitato centrale, 6 comitati dipendenti, 1 comitato particolarmente segreto dedito all’attività di reperimento e falsificazione dei passaporti e 1 struttura per l’assistenza dei militanti detenuti nelle varie carceri.

Per il suo funzionamento era prevista l’acquisizione da parte del militante della cittadinanza del paese in cui era destinato a operare tramite matrimonio e dei corsi di addestramento in Libano. Damasco rimaneva la città base di partenza per le diverse operazioni. Segretario generale era Sabri Khalil Abdul Hamid Al Banna. Nel comitato centrale una delle figure di riferimento era Ghassan Naji Al Alì (Kassan), chiamato il “doctur”, originario della Giordania e capo dei sottocomitati di reclutamento e organizzazione. Laureato in medicina, tra i fondatori di Settembre Nero e iniziato la sua attività nel 1971 quale membro di Fatah prima di passare ad Abu Nidal diventando il numero 3 nella gerarchia. Nel comitato per le operazioni esterne, invece, spiccavano Selim e il suo vice Haisan che conosceva l’italiano per essere stato in carcere in Italia anni prima ed era il responsabile per l’addestramento dei diversi gruppi.

I nomi di Abu Musqal alias Adnan e Abu Fouad erano legati, invece, agli attentati del 27 dicembre quali supporti logistici.

Ghassan, Selim e Haisan apparivano dunque, secondo la ricostruzione fatta, come gli organizzatori di entrambe gli attacchi. Come località di addestramento in Libano, Sarhan, indicò Salabia vicino alla città di Stura, El Roudah vicino a Barjilias (una delle sedi militari di Abu Nidal) e la stessa Barjilias.

Nel comitato militare per le operazioni all’estero risultava Mustafa Hassan Murad Ismail alias Abu Nizar, da lui dipendevano le cellule terroristiche segrete dislocate in Europa, ritenuto dal 1985 il responsabile supervisore delle operazioni terroristiche all’estero contro la Giordania, Israele e l’Olp e infine coordinatore dei 35 operativi in Austria, Belgio, Cipro, Francia, Italia, Gran Bretagna e Spagna. Con lui cooperava per l’istruzione militare Jamal Abdoud. Le relazioni estere erano tenute da Issam Afif Ibrahim Abdullah Odeh alias Issam, mentre il comitato centrale di informazione dipendeva da Mohamed Masfi Abdullah Mustafa Hannoun alias Wasfi. Come ultimo per la Siria era responsabile Abdul Rahman Kamel Mohammed Yassin Issa alias Abdou Samir.

Le motivazioni apportate furono molteplici e si incentrarono soprattutto sulla circostanza dell’appoggio fornito dall’Italia agli aerei israeliani durante il bombardamento di una cedola dell’Olp a Tunisi. A questo si aggiunse, inoltre, la volontà di screditare Arafat in previsione dell’incontro prossimo tra il re Hussein di Giordania e il presidente siriano Assad.

In una segnalazione precedente l’attentato, proveniente dagli ambienti di estrema destra italiani, si fece riferimento a un colloquio con uno studente universitario egiziano a Roma che accennò di un prossimo attentato di grosse dimensioni e menzionò il dirottamento dell’Achille Lauro, dell’aereo egiziano dirottato su Malta come possibili moventi. L’ambasciata israeliana, che pure aveva fatto presente ai servizi di sicurezza nei giorni antecedenti l’accaduto, la forte possibilità dell’avverarsi di esso, non aveva precisato però alcun movente, ma si era preoccupata di predisporre degli agenti armati nei luoghi ritenuti più sensibili. Gli stessi che poi con il loro intervento scongiurarono una strage.

Anche l’attacco doveva avere un diverso sviluppo e dalle parole di Sarhan si evinse che il bersaglio erano in realtà i passeggeri presenti al check in del volo della compagnia israeliana El Al, che dovevano essere usati come ostaggi per prendere il controllo dell’aereo presente in pista e per poi dirottarlo verso l’aeroporto di Tel Aviv dove l’avrebbero fatto saltare con tutte le persone a bordo.

Come armi, i terroristi usarono per l’azione dei fucili mitragliatori kalashnikov, modelli AKMS e AK 47 e delle bombe a mano F1. I kalashnikov AKMS prodotti dal 1959 sostituirono nel tempo, quasi totalmente, il modello AK 47 di produzione sovietica.

Anche se più vecchie e fuori produzione, le armi del secondo modello risultarono quasi nuove, come se non fossero mai state utilizzate. Un’attenta analisi rivelò che queste erano state notevolmente ingrassate nelle loro parti, tanto da sembrare essere state manovrate da una mano poco esperta. Le prime, invece, di produzione polacca per un committente arabo, sembrarono più utilizzate. Ciò portò alla conclusione che queste erano state preparate per l’azione da persone diverse.

Dopo aver ricostruito in parte gli avvenimenti di quella terribile giornata, sulla base delle notizie diffuse dalla stampa nei momenti successivi, non resta che da chiedersi chi fosse il finanziatore dell’operazione, che portò una cellula dell’organizzazione di Abu Nidal a colpire al cuore l’Europa.

Diverse furono le rivendicazioni, ma secondo una fonte estera sufficientemente attendibile, i soldi arrivarono dalla Libia per mezzo di Al Hijari Alì, di nazionalità libanese già fondatore della United African Airlines e sospettato di appartenere ai comitati rivoluzionari libici. A questo punto, sarebbe utile conoscere le testimonianze dirette di chi subì quella terribile giornata per completare la ricostruzione. Capire soprattutto chi fu a sparare e come si comportarono gli agenti italiani presenti nel luogo al momento.

Credo, però, che come purtroppo accade spesso in Italia, certi misteri rimarranno tali a lungo anche se, orami, molti dei protagonisti politici non sono più in vita. Una ricostruzione giornalistica presenta dei limiti che solo un lavoro scientifico potrebbe colmare.

Leggi qui la testimonianza del fotografo Elio Vergati

Paris” di corno.fulgur75 è concesso con licenza CC BY 2.0.

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